Napoli

Qualche ora dopo eravamo in treno e, in un lampo, siamo arrivate a Napoli. Mi è piaciuto subito. Frenetica, aspra, rumorosa, sporca, incasinata città. Un gigantesco formicaio con tutto l’esotismo di un bazar mediorientale e in più un tocco di voodoo stile New Orleans. Un esaltato, pericoloso e allegro manicomio. La mia amica Wade è venuta a Napoli nel 1970 ed è stata derubata in un museo. La città è decorata da festoni di biancheria che penzolano nei vicoli tra una finestra e quella di fronte, canottiere e reggipetto appena lavati che svolazzano al vento come bandiere da preghiera tibetane. Non c’è strada a Napoli in cui non si veda un monello in pantaloni corti e calze una diversa dall’altra, che strilla rivolto a un altro monello appollaiato sul tetto di fronte. Non c’è casa, in questa città, che non abbia alla finestra una vecchia, ingobbita dagli anni, intenta a osservare sospettosa la strada sotto.

Mangia, prega, ama, Elizabeth Gilbert

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